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L'integrazione tra volontariato e solidarietà: quando si ama davvero il prossimo tuo?

  • natanastasi
  • 6 gen 2018
  • Tempo di lettura: 30 min

La qualità della nostra vita psichica determina la qualità dei nostri vissuti, e quindi dei nostri pensieri, delle nostre azioni, delle nostre relazioni, dei nostri interessi. E premesso che l’esistenza dell’essere vivente -uomo, vegetale, animale che sia- non può essere scissa in alcun modo dal vissuto collettivo, se non idealmente, il vissuto dell’essere umano si struttura e si esprime attraverso i contesti gruppali: ossia la sfera amorosa, quella amicale, quella familiare e la sociale. Queste cinque sfere caratterizzano e influenzano in maniera conscia e soprattutto inconscia la psicologia della persona, per via dell’inconscio collettivo, perché l'ambiente e le persone che frequentiamo plasmano ogni giorno la nostra personalità, senza che ce ne accorgiamo, in quanto vi è un lessico comune, un modo di pensare comune, un adattamento (conformistico o anticonformistico che sia) per favorire la coesistenza e la convivenza reciproca. E' inevitabile che le persone cerchino comuni accordi, perché in assenza di questi è impossibile condividere spazi comuni: molti accordi sono esplicitati dalle parole, dalle idee, dai progetti, dalle scelte, molti altri invece sono impliciti e sono basati sui sottintesi, su dati impliciti che per affinità caratteriali spingono i soggetti a formare contesti gruppali simili alle loro personalità. Ad esempio: una persona liberale frequenterà ambienti liberali, dove incontrerà persone che hanno vissuto spesse volte un'educazione e delle esperienze simili di vita e che le hanno portate ad avere una mentalità più aperta. Una persona dalle idee più conservatrici avrà molto da condividere con una liberale sul piano esperienziale? Di certo le strade di vita che le hanno portate ad essere molto distanti è per via del contesto di appartenenza (famiglia, parentela), dal modo in cui si è vissuta l'infanzia e l'adolescenza (quindi le esperienze che hanno caratterizzato i primi 10 anni di vita, sia in positivo, sia in termini di traumi e ferite psicologiche), la condizione economica, l'istruzione ed il luogo di provenienza (nascere nel nord della Nigeria, la regione dove agisce il Boko Haram, non è lo stesso che nascere a New York). Pertanto, in considerazione di tutti questi aspetti è quanto mai evidente che questi cambiamenti in ambito psico-sociologico, con queste migrazioni in atto, con questo processo di globalizzazione, con queste tecnologie in uso (social network, i-phone), implichino la necessità di una riflessione sull’identità dell’essere umano all’interno della collettività e una focalizzazione sull’integrazione di queste culture nelle culture già preesistenti nel territorio italico. E' altresì impossibile non solo descrivere, ma anche definire l'identità della persona escludendola dal contesto in cui vive, dai suoi contesti gruppali, dai fattori esperienziali sopracitati e analizzarla nella sua singolarità, in laboratorio. L’inconscio collettivo (nella psicologia analitica junghiana, s'intende il livello della psiche in cui sono contenute le esperienze primordiali dell’umanità, che si manifestano attraverso i sogni o attraverso immagini ricorrenti, i miti o le creazioni artistiche) quindi influenza il 90% della personalità, tanto da poter di conseguenza affermare che l'essere umano non è che l'espressione del suo popolo: un maliano non è nessuno se estrapolato dalla sua razza, dalla sua lingua e dalla sua terra. Una sapienza evidente per la saggezza africana, ma disconosciuta dalla nostra cultura dominante. Il restante 10 %, ossia l'Io conscio, secondo la psicologia, è difatti soltanto la parte emersa di un iceberg. Ed inoltre è molto interessante notare come la psicologia transculturale stia facendo notevoli progressi nello studio delle peculiari espressioni tradizionali e comportamentali dei vari popoli del mondo.​​

Iniziando ad addentrarci pian piano nel discorso, analizzando la situazione dell’Italia, è bene ormai riconoscere che il nostro Paese sia da sempre multietnico, però, non essendovi mai stata una tradizione e quindi un educazione civica ampiamente diffusa del vivere e collaborare insieme fra culture, ma soltanto degli esempi virtuosi di persone che purtroppo non rappresentano la maggioranza, il tipo di società in cui viviamo è caratterizzato dalla sola “coesistenza fra individui”. “Pensare per sé” è il pensiero dominante di oggi, un pensiero basato esclusivamente sul proprio istinto di sopravvivenza e di autoconservazione, che non tiene conto del prossimo: si esercita quindi malamente la propria cittadinanza, mancando di profonda riflessione proprio sul senso civico. L’individualista diventa pertanto la traduzione dell’essere umano. Ora, essendosi acuita questa assenza d’identità multiculturale, d’identità comunitaria e con l’imperare dell’egoismo del singolo, l’integrazione ha assunto caratteri di maggior rilievo per via della campagna mediatica, favorevole o contraria, all'approvazione dello Ius soli (per conoscere meglio l'argomento vedi il link), che tira in ballo i temi dell’ accoglienza ed integrazione dei “migranti”. Pongo a tal proposito delle domande: 1) quale integrazione, quale accoglienza può esistere in Italia?; 2) gli italiani fra loro sono davvero integrati?; 3) cosa vuol dire integrazione? Per trattare l’argomento decido di porre innanzitutto un’analisi terminologica su alcuni termini di uso corrente, troppo spesso utilizzati con un approccio pre-riflessivo, ossia solo perché sentiti e visti di frequente. Le parole, che possono essere veleno o farmaco allo stesso tempo, hanno una rilevanza ben precisa perché sono la proiezione della nostra vita psichica personale e, come ho scritto prima collettiva, dato che le abbiamo apprese da qualcuno, in primis dai nostri familiari e dalla scuola, ad usarne talune al posto di altre, pertanto, utilizzarle senza aver chiarificato l’impatto psico-sociologico che determinano sulla nostra personalità e su quella altrui è sicuramente un atteggiamento pericoloso, perché implica come portato tutte le connessioni inconsce ad esse annesse. Ogni parola difatti ha una carica energetica ben precisa, che riflette la personalità di chi la usa: una personalità vittimista utilizzerà costantemente un lessico rivolto in negativo, con termini di accusa, depressivi e recriminatori, nonché infantili e li può trasmettere chiaramente alla sua prole, perché è questo il dizionario che conosce. Impariamo quindi a parlare difatti per imitazione e non per un conscio atto di volontà e di riflessione selettiva, non per comprensione delle etimologie di ciò che sentiamo dire, e impariamo ad usare il verbale, il paraverbale (tono, timbro, accento e suono di pronuncia) ed il non verbale (la gestualità motoria) con una conoscenza di questi aspetti sul piano non psicologico, non teorico, ma puramente pragmatico, in connessione alla casistica di utilizzi che di queste parole vengono fatti dalle persone che ci circondano: connettiamo ad esempio le parole "porta" ed "aprire" perché esperienzialmente abbiamo visto la connessione e abbiamo imparato che per voler figurativamente "aprire" la porta bisogna pensare alle due parole connesse. "Apro la porta", è un pensiero ormai preriflessivo, ma è bene sottolineare l'importanza di questa pre-riflessività perché questa ha determinato una connessione, un solco mentale, un pattern neurolinguistico in ciò che prima vedevamo, che all'inizio potevamo fare ed indicare (aprire la porta) senza saperlo formulare linguisticamente, soltanto a livello gestuale. Ecco, il punto è: se questo esempio non ha nulla di dannoso, altre connessioni neurolinguistiche stimolano reazioni di stampo definitorio (le definizioni in generale, e soprattutto quelle relative all'identità dell'essere umano le indico in questo saggio con un'accezione assolutamente negativa). Pongo un esempio su un'immagine definitoria: se viene utilizzata la parola “povero” ci si sta automaticamente ponendo con superiorità verso qualcuno, una sorta di bullismo velato, ma se l'unico modo per parlare di quella persona è definirla, perché da bambini ci è stato insegnato che una persona che vive sul ciglio della strada va definita secondo l'etichetta della "povertà", è chiaro che non è esattamente semplice rompere questo schema associativo. E' possibile spezzare questo pattern soltanto evidenziando intanto il danno che questa parola arreca sull'altro, il danno che arreca a se stessi nell'essere costretti a definire gli altri per poterne parlare (ci si schiavizza così al definire anche se stessi, facendo un danno alla propria autostima ed all'amor proprio), e conoscendo delle parole che non siano caricate di significati definitori, ma che anzi traggano il meglio da quella persona.​​

Poniamo pertanto il focus sul ruolo manipolatorio che hanno assunto i mezzi d’informazione, la politica, e le associazioni filo-governative proprio sul piano del linguaggio nel creare definizioni sull'identità degli esseri viventi all'interno di una macroscopica narrazione sulla storia e sulla visione del mondo. Cos'altro è il telegiornale se non è uno strumento per indurre le persone a vedere solo ciò che si vuol far vedere e nel modo in cui lo si vuol far vedere, per escludere ciò che non si vuol mostrare e quindi per distrarre l'attenzione? I media creano odierne mitologiche visioni, perché non vi è in fondo distanza alcuna per l'immaginazione delle persone, tra il cartone animato, il film e il telegiornale: il reale e l'ideale si mescolano insieme senza saper più distinguere il vero dal falso e soprattutto senza più porsi questi problemi, divenendo totalmente anestetizzati e insensibili al grande inganno mediatico.​​

Dei brillanti indizi sulla personalità e sull'evoluzione di qualcuno risiedono nei modi in cui questi comunica, ossia dalla sua conoscenza etimologica delle parole che sceglie e che usa, dal colore delle sonorità che imprime nella pronuncia, da quale parte del corpo usa per parlare (testa, occhi, gola, petto, ventre, piedi), dalla gestione delle figure retoriche, dall'articolazione, dalla conoscenza e dall'utilizzo delle emozioni emesse tramite il paraverbale, dalle sue competenze empatiche e di ascolto, dalle pause, ed infine, ma soprattutto, da come si esprime attraverso il linguaggio del corpo. Parlare quindi non è dialogare: per saper parlare occorre saper dialogare, che vuol dire saper comunicare a 360°, in tutte le forme. Il dialogo è la precondizione della parola.

Padroneggiare il linguaggio e saperlo infondere, istruire, come si vuole nel popolo vuol dire tenerlo costantemente in pugno ed essere in grado di controllarlo come se fosse una marionetta. Difatti, vi è questa imponente manipolazione perché ben si è compreso come sia la forma delle parole a determinarne l’interpretazione del contenuto, l’essenza, quindi manipolando l’argilla delle parole, le metafore, le analogie, il paraverbale, il non verbale, le associazioni subliminali, si costruiscono i sillogismi, i ragionamenti che si vogliono instillare per assorbimento, in maniera subliminale, nella popolazione. Vi è l’intento di diffondere una visione del mondo del tutto negativa nella quale siano presenti in primis il capro espiatorio, quindi l’eroe, i nemici, il deus ex machina e il senso della patria. Infatti, per creare questa narrazione sociale è stata messa in scena una tragedia greca: la struttura è identica. Immaginiamo pertanto d’essere a teatro. Buoni e cattivi, strutture archetipiche primordiali, ricerca del tema mitico: si può sintetizzare in tal modo la questione. Come non notare il tema dell’arroganza, dell’orgoglio punito, l’invidia degli dèi italiani verso coloro che vorrebbero imitarli, che ossia vorrebbero essere italiani come loro, e quindi il peccato di hybris, il non desiderare troppo? Italiani che si vedono come esseri perfetti che possiedono tutto: dèi da non imitare. Questa è la logica del sistema, risulta pertanto evidente la contrapposizione con l’imitatio christi e la fratellanza universale. Ora, per iniziare a riflettere di “immigrazione”, “migranti”, “nuovi europei”, “clandestini”, “rifugiati”, “extracomunitari”, “stranieri”, “profughi” -e non cito le parole con un’accezione prettamente negativa!- è necessario comprendere che queste non siano affatto delle parole neutre. E per “neutre” intendo parole che non generino alcun tipo giudizio, di discriminazione e d’idea negativa, ossia che non definiscano, che non descrivano l’identità e non la delimitino entro i confini delle nostre personali visioni del mondo e delle nostre credenze, mantenendo integra la personalità del soggetto e del gruppo sociale. Non sono dei termini neutri quindi perché il loro utilizzo ha una “storia ideologica” ben precisa, e proprio quando si utilizzano, è inevitabile inserirsi nel calderone della discriminazione, etnica in questo caso particolare, a prescindere dalla posizione politica e dall’intenzione che si crede di avere in merito. Utilizzando quindi delle parole definitorie genera quindi il pensiero giudicante, discriminatorio e dunque razzista. Inoltre, a priori, ciò che viene detto e l’intenzione con cui lo si esprime già di per sé non vanno di pari passo, ma collidono, e quindi senza una consapevole armonizzazione del pensiero con le parole, col paraverbale, col non verbale, ed i significati che assumono non solo secondo il proprio linguaggio privato, alias secondo i significati che personalmente attribuiamo alle parole che utilizziamo, ma secondo una leggibilità uniforme sia verso i nostri interlocutori sia verso gli osservatori esterni ai quali non ci stiamo rivolgendo direttamente, ma che volontariamente o meno recepiscono i nostri messaggi comunicativi, e li interpretano secondo il loro linguaggio privato e la loro forma mentis. Il punto è quindi l'assicurarsi che non vi siano delle possibili altre interpretazioni di ciò che si sta formulando, se non quelle che vengono previste dal soggetto comunicatore. Ossia: se utilizzo la parola "colore rosso" so perfettamente che essa non può essere interpretata in altro modo dai miei interlocutori, quindi di ogni parola densa di significato si può ottenere, con l'esercizio, una capacità di controllare tutte le possibili accezioni di ciò che si sta comunicando, prevenendo sia problemi comunicativi e di comprensione reciproca, quindi evitando i fraintendimenti, e sia di nuocere ai soggetti di cui si sta discorrendo. Facilita molto la padronanza linguistica sia l'abilità nel saper lavorare con esempi pratici, sia con le metafore, le analogie e ovviamente nello specifico è basilare la conoscenza etimologica dei termini, consultando il dizionario Treccani e notando sia la storia etimologica e sia le varie accezioni secondo i vari dizionari specialistici (ad esempio: "anima" nel dizionario filosofico viene trattata in maniera assolutamente differente della trattazione che ne vien fatta nel dizionario di psicologia). E' importante anche conoscere il tipo di energia che scaturisce dalle parole, le emozioni racchiuse in esse e quelle che si attivano in noi e nei nostri interlocutori, che sono connesse al nostro tipo di personalità e a quelle altrui, e che variano a seconda di come ognuno di noi è. Ad esempio: utilizzare una comunicazione troppo diretta può essere funzionale solo con alcune tipologie di persone, mentre con altre può essere interpretata negativamente e creare una pessima comunicazione. Vi sono in questo aspetto delle notevoli differenze culturali tra il modo di comunicare italiano e la comunicazione africana: la prima è spesse volte diretta, alle volte anche troppo invadente per una comunicazione africana che si basa sul mantenimento della propria privacy personale. Fare domande personali ad una persona africana quindi, non sempre, ma è possibile che venga interpretata come indice di cattiva educazione, perché sta esponendo la persona a dire della propria vita privata senza che ne abbia effettivamente voglia. Altro esempio, considerando la parola “migrante”: può essere espressa intendendola come definizione di persone che hanno fatto una migrazione, quindi con rispetto, ma può essere detta anche con sentimento di pietà, o di disprezzo, e quindi può essere interpretata da chi ci ascolta con l’accezione opposta a quella che vorremmo comunicare: quindi ad esempio confondendo un’intenzione di rispetto per un’intenzione di pietà, o figuriamoci, per estremizzare, la pietà non è molto distante dal disgusto verso questi soggetti. Inoltre, si possono usare delle parole che corrispondono al proprio pensiero a riguardo, ma che vanno in contrasto col proprio comportamento: si può essere ad esempio favorevoli all’integrazione sul piano mentale, ma nel pratico qualcuno evita di stringere la mano alle persone di differente etnia, perché pensa che abbiano malattie, che non si lavino e che puzzino. Figuriamoci uscire in loro compagnia. A livello terminologico quindi utilizzare la parola “migrante” per definire una persona che proviene dalla Nigeria, non la pone sullo stesso piano di considerazione e di rispetto di quella che invece è descritta come semplice persona che non si identifica per il suo passato viaggio. Per fare un esempio esplicativo: la percezione che si ha della medesima persona se la si presenta come migrante oppure come "persona e basta" o di provenienza “americana” cambia notevolmente, migliorandone la visione nelle altre due accezioni, perché chi vive in America non è povero, non è pericoloso, non è da guardare con sospetto e con pietà. Ed utilizzare appunto delle parole definitorie con accezione negativa, come quelle sopracitate, induce al giudizio ed inquina la mente di chi le utilizza, oltre che ovviamente distrugge i soggetti che vengono definiti. Il viaggiare per profitto viene incoraggiato; il viaggiare per sopravvivenza viene condannato, con grande gioia dei trafficanti di “immigrati illegali” e a dispetto di occasionali ed effimere ondate di orrore e indignazione provocate dalla vista di “emigranti economici” finiti soffocati o annegati nel vano tentativo di raggiungere la terra in grado di sfamarli. (Z. Baumann) Quindi ognuno può pensare quel che vuole, come vuole, ma finché non s’impegna a volerlo comunicare tramite delle parole oggettivamente comprensibili con semplicità e chiarezza per l’altra persona, quel pensiero resta esclusivamente nella mente di chi l’ha generato e può essere interpretato secondo mille modi diversi.

Che si usino parole che si credono “a fin di bene”, quindi senza intenzione malvagie e senza alcun intento discriminatorio, ma che non è oggettivo che siano davvero buone ed innocue, senza saper tener conto del danno che possono fare a se stessi e agli altri, è un danno doppio, inferiore paradossalmente rispetto a chi è consapevole di usare parole cariche d’odio e che agisce in maniera conforme al suo pensiero. A far riflettere è il maggior grado di consapevolezza e conformità tra pensiero ed azione che si rileva negli ambienti di estrema destra, paradossalmente, in questo argomento. Conformità nel senso che un fascista sa perfettamente che utilizzando delle parole cariche di disprezzo fa un danno verso le persone e le utilizza proprio per questo fine. Invece, l’eterogenesi dei fini, ossia le “conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali” è uno degli errori tipici di molti contesti che si autoproclamano favorevoli all’integrazione. Inoltre, le “buone” intenzioni e il credere di fare del bene senza competenze specifiche, solide e concrete, che assai difficilmente vengono messe in discussione per via di un meccanismo di autoconferma che non prevede l’autocritica, implica fare il doppio del male che ha come conseguenza l’attuale esistenza, fra l’altro, di gruppi di estrema destra, proprio perché tali gruppi, facendo leva sulle debolezze del sistema integrativo e volontaristico, facilmente colpiscono i loro bersagli e con motti qualunquistici riescono a far breccia nel pensiero comune della massa. Difatti i “razzisti” nel senso proprio del termine ancora oggi esistono perché hanno ancora il loro polo dialettico nelle persone che a loro si oppongono con la loro stessa terminologia, altrimenti si sarebbero estinti, perché avrebbero perso il loro nutrimento: le persone che danno loro considerazione ed audience. E’ tutto un problema di ricerca di attenzione, come quando i bambini strillano e fanno i capricci per attirare i genitori. E questo succede perché ancora oggi si parla di “razza”, mentre non si parla più di crociate perché non esistono più gli infedeli e neanche i crociati, ma soltanto le parole crociate. Offriamo all’oblio questi termini storicizzati! Non troverebbero dunque terreno fertile se vi fosse un'evoluzione sul piano del linguaggio e della comunicazione e le masse di genti senza informazione potrebbero essere educate da chi si impegna nel settore integrativo, appunto. Difatti si può non essere intenzionalmente discriminatori, ma divenirlo inconsciamente con l’utilizzo di parole caricate in maniera ambivalente, bipolare, di accezioni sia razziste che non, insomma parole ambigue, che stanno a metà fra l’odio e l’accettazione -alias la pericolosa tolleranza, aggressiva in fondo, che presuppone la superiorità italiana- perché utilizzate senza saperne il motivo, senza scienza. Le persone soggette a queste etichette vengono considerate non per la loro umanità, ma giudicate per le definizioni a loro attribuite in ambito politico, giornalistico, volontaristico, associativo in genere, popolaresco. Quindi si può diventare ottimi razzisti nei luoghi dove si fa e si predica il volontariato, l’accoglienza, l’integrazione e il “fate bene fratelli”, perché abituati dalle parole del gergo del gruppo a considerarsi superiori rispetto a chi si "aiuta", mentre prima di fare volontariato magari questo problema nemmeno esisteva, o se esisteva non era a livelli esponenziali, e quindi si era meno razzisti. In questo senso si può parlare di bipolarismo oscuro nel mondo del volontariato. Evidentemente la “diversità” -altro termine da eliminare dall’uso corrente- da sempre è stata in qualche modo soggetta ad analisi, per descriverla in qualche modo, per farle una forma, un’essenza, per poterla concepire, individuare e schematizzare. La “diversità” rappresenta per questo, tutt’oggi, un assoluto termine di incomprensione. La stessa parola “diversità” ormai non è più una parola neutra, ma è carica psicologicamente di accezioni positive e negative, che non possono essere scisse fra loro. Invece di utilizzare questa parola, può essere molto efficace utilizzare la parola “complementarietà” che sottintende non una sporporzione fra le persone, perché mantiene sempre alto il livello di autostima (che non sfocia quindi nella superiorità), di stima verso il prossimo, di equità e di rispetto reciproco. Focalizziamoci dunque sul “volontariato”: già questa parola di per sé rimanda troppo precipitosamente, in maniera pre-riflessiva ad un’idea di bontà d’animo in chi lo fa, quando invece è il modus operandi dell’associazione, di ogni singolo volontario ed il beneficio concreto sul piano oggettivo che ne riceve la persona secondo il suo punto di vista che non è il nostro e secondo i suoi bisogni e i suoi desideri in accordo con l’armonia dei suoi doveri, dei suoi diritti, della sua libertà e della nostra e della sicurezza dello Stato, secondo quanto prevede la legge italiana, a determinare la “bontà” o l’assenza di “bontà” di ogni volontario e dell’associazione tutta. Il “volontario” nell’autodefinirsi tale sostiene la sua bontà nell’aiutare i “deboli”: potrebbe anche non farlo, ma lo fa per via della sua alta “magnanimità”. Eppure si aiuta anche per sfuggire dal dilagare dell’asocialità diffusa, per conoscere persone, per combattere le proprie frustrazioni personali, per sentirsi sempre al centro dell’attenzione e necessari per qualcuno, per avere qualcuno su cui sfogare la propria aggressività e nevrosi, per sentirsi eroi, per fuggire dalle proprie storie di sofferenza, per distrarsi dai propri impegni, per disimpegnarsi da una vita troppo frenetica con la quale non si vogliono fare i conti, per conformarsi agli amici che svolgono già quest’attività, ed anche per fare carriera politica, creandosi un’immagine di “brava persona” per distinguersi dagli altri politici e per vincere le prossime elezioni. Vi è poi una moda dilagante di ricerca di associazioni nelle quali tesserarsi. Invece il "debole" è semplicemente una persona che proviene da una storia sicuramente drammatica, ma può benissimo avere una personalità forte e decisa. Queste sono le tacite verità che mai vengono rivelate e che rendono più visibile che questa presunta “bontà” sia una forma di auto-aiuto nella quale ci si ritrova ad aiutare altri, senza sapere bene come e perché. Quindi il “volontario” può assumere i tratti di un vero e proprio killer, perché utilizza queste pallottole verbali e questi stili comportamentali a discapito di chi è costretto a subire il suo tentativo di aiuto. C'è quindi da chiedersi: "sto realmente facendo del bene a questa persona tramite questo gesto, o credo di fare del bene solo perché mi torna comodo pensarlo per la mia autostima e per farmi vedere dagli altri e da me stesso come un benefattore?".Il volontario perciò esercita forse la sua volontà, oppure molto più spesso può essere soltanto una pedina manovrata da qualche burattinaio, e che la eserciti a fin di bene o a fin di male non è chiaro. Determinate persone dovrebbero inoltre non poter svolgere attività di volontariato che implichino le possibili influenze negative sull’ambiente e sulle persone. Occorre un organismo di controllo che possa certificare e abilitare la persona a poter svolgere o meno quest’attività, così come vale per gli psicologi (e come dovrebbe valere anche per gli insegnanti) che non possono esercitare se non considerati idonei, proprio perché chi svolge quest’attività opera su persone che vivono in condizioni psicofisiche di grande fragilità e può condizionare negativamente sia tutto l'ambiente e sia gli altri operatori che si impegnano con serietà e capacità. La precondizione per fare del bene verso il prossimo in maniera autentica è il benessere nei confronti di se stessi: come sostiene la medicina tradizionale cinese, il medico che ha un'anima malata non può che trasmettere disagi e comportamenti disfunzionali, anche pericolosi. E siccome il volontario non è molto distante da un medico, chi non sta bene non può fare del bene, ma porta malattie ed opera male, a causa delle sue pessime diagnosi. Fare del "bene" oltretutto non vuol dire fare sempre del bene autentico, ma soltanto credere e convincersi di realizzarlo, quando invece il bene dev'essere visualizzato non in base alle proprie credenze o alle proprie sensazioni. Proprio perché il reale bene per essere davvero attuato si basa su una conoscenza profonda di ciò che il prossimo ha realmente di bisogno e su quali siano gli strumenti per fornire l’aiuto solidale, e per questo non ci si può in alcun modo improvvisare. Va tutto analizzato insomma, caso per caso. Il bene incosciente privo di competenze specifiche è male, anche se i presupposti sono "buoni" all'occhio sociale perché basati su una serie di credenze popolari o di convinzioni individuali. Invertendo i poli delle proprie credenze, tramite la specializzazione in competenze specifiche nei propri ambiti, ci si accorge spesso ampiamente che ciò che risultava essere un "bene" è un male per il prossimo, e ciò che veniva considerato come un "male" da non realizzare, invece è un ottimo gesto per la crescita di chi lo riceve. Che competenze si hanno per credere di fare del bene agli altri? Da cosa siamo spinti all'agire altruistico? Ogni nostra azione ha delle conseguenze verso il prossimo, in tal senso, quindi è necessaria un'attenta analisi di autocritica. Ecco l'ironia: il "male" alle volte è più opportuno di un falso bene, in quanto ciò che è male per il donatore e dal suo esclusivo punto di vista soggettivo è bene concreto per chi lo riceve. Chi può formare i volontari? Ovviamente la figura dello psicologo e del pedagogista, che dovrebbero essere inseriti come ruoli cardine in questi progetti. Infatti, non chiunque può svolgere attività solidali: soltanto chi è stato formato dal centro in cui si vorrebbe svolgere quest’attività, che quindi ha delle capacità in merito e chi ha un equilibrio sano con se stesso, una personalità sana, per evitare d’inquinare gli altri che già vivono in situazioni delicate e fragili, che non hanno bisogno di altri traumi e per il contesto stesso. Massima attenzione in tal senso, perché rappresenta un punto nevralgico. Motivo per cui i dibattiti e le riunioni organizzate costantemente servono a creare identità di gruppo, per potersi confrontare e migliorarsi, stimolare l'autocritica affrontando i problemi organizzativi e quelli derivanti dai ruoli che si esercitano, oltre che per programmare insieme il lavoro da svolgere per aiutare al meglio ogni persona che richiede aiuto. La fiducia reciproca fra operatori e l’elaborazione comune dei processi educativi e solidali combatte l’egocentrismo dei “volontari improvvisati” e la partecipazione a singhiozzo alle attività. Tornando alle parole, esse plasmano i nostri pensieri, la nostra fisiologia, la nostra fisiognomica, la nostra visione della vita e delle cose, la nostra spiritualità, pertanto la nostra psicologia e la nostra socialità. Le parole vanno usate con cura scegliendo fra termini neutri, che tutelino l’essere umano senza sminuirne l’essenza in alcun modo, perché il non prestare attenzione alle parole determina la creazione di categorie e moduli mentali che, di conseguenza, sfociano nelle ideologie, nelle chiusure mentali e nelle schizofrenie di massa. La prima parola fonte di discriminazione è paradossalmente infatti la logica dell’ ”aiuto” (esistono varie forme di aiuto, di cui alcune sane e altre appunto no, come scrivo sopra), del “volontariato”. Si aiuta chi viene riconosciuto come essere “inferiore”, “inabile”, “incapace”, “debole”, “povero”, “sottomesso”, e quest’approccio psicologico ha sia come risultante l’acuirsi della discriminazione e del razzismo, e sia l’acuirsi dell’assistenzialismo, il male di quest’epoca, non il suo superamento che dovrebbe essere il nostro reale obiettivo. Ricordiamoci di amare il prossimo come noi stessi, perché se amassimo veramente gli altri come noi e se trattassimo gli altri come vorremmo essere trattati noi, queste parole non esisterebbero neppure, in quanto sin da principio i primi a rifiutare di essere etichettati in tal modo saremmo noi. La logica del volontariato, del servizio, esclude la solidarietà che esprime ed esperisce il buon samaritano nell’amare lo straniero, proprio a causa della mancata riflessione su questi argomenti, che costituiscono l'anima di questo lavoro. Ed è da questa dimostrazione di affetto che si evince l’impossibilità di essere solidali con i lontani, con coloro che teniamo a distanza. Occorre quindi ridurre le distanze che ancora persistono per via di queste parole e credenze pregiudizievoli. Scendiamo dall’Olimpo, e svegliamoci dall’incubo di sentirci dèi in terra.La persona per questo purtroppo non può esser vista come un pari, ma come un essere inferiore, un “povero”, un “migrante”, qualcuno da “aiutare per pietà e commiserazione”. Per questo, anche in tali ambienti, si può parlare di discriminazione se vengono utilizzate queste parole sopracitate, che alimentano il razzismo invece di debellarlo una volta per tutte. Chi del resto vorrebbe poter far bene lontano dal voler apparire un “benefattore”, nel totale segreto, senza pubblicizzarsi per essere famosi, lontano da “likes” e telecamere? “Che non sappia la tua mano destra quello che fa la tua mano sinistra”, una sapienza che pare ormai dimenticata dai più, ma non da tutti.Applichiamo quindi l’empatia, ascoltiamo con cuore aperto gli stati d’animo altrui e immedesimiamoci, immaginando di essere al loro posto, prima di proferir parola. Perché oggi si inscena un teatro in cui si rappresenta la società: chi diventa “volontario”, chi non lo diventa, chi chiede l’elemosina (in senso non necessariamente letterale, ma simbolizzato nel ricevere in generale) e chi non la chiede, chi fa il razzista che cerca il capro espiatorio di tutti i mali nelle categorie più indifese, e chi nell’indifferenza tira dritto per la sua strada. Pessimo teatro dell’io: il volontario narcisista, l’elemosiniere, il megalomane nazionalista e tirannico. Proprio perché la parola “volontario” può implicare la predominanza dell’Io sul tu, pone una disequità, invece la solidarietà, come rileva Stefano Rodotà, specifica una relazione paritaria tra persone che si aiutano reciprocamente, che sono solidali l’un con l’altro. L’aiuto per questo a parer mio semiologicamente preclude la biunivocità, il collaborare dialogicamente in cui ognuno offre le proprie competenze, pensieri ed esperienze. Gli “immigrati” possono essere solidali nei nostri confronti più di quanto crediamo, anche più di noi verso di loro. Ed è molto triste pensare che magari loro credono di esser visti davvero come dei fratelli, degli amici, ma che dietro queste belle parole si nasconda questo tetro retroscena. Occorre sana consapevolezza nell’instaurare fiducia verso chi si vuol aiutare, prima ancora di pensare ad aiutare qualcuno, perché è una grande responsabilità e le persone non sono giocattoli, ma possono essere distrutte ugualmente. Il primo bisogno che hanno è quello di ricevere amicizie sincere. Bisogna invece apprendere che non sono le azioni che si compiono a determinare la propria essenza, perché l’essere umano fa il viaggio migratorio, ma la sua identità non è il viaggio, è sempre un oltre, l’essere umano è superiore ad ogni definizione tautologica ed onnicomprensiva. L’essere umano è un essere umano, niente e nessuno può annettere la diversità di specie tra le persone, perché facciamo parte della stessa specie. Pongo quindi una premessa: a priori escludo dal seguente ragionamento chi non riesce a poter cambiare a causa di disabilità fisiche, o a causa di traumi di natura psicologica, da risolvere nelle adeguate sedi e con il supporto di esperti nel settore psicoterapico e mi accingo ad affrontare il concetto di “elemosina”. Difatti sono da considerare gli evidenti disturbi post-traumatici da stress che comprensibilmente affliggono molte di queste persone. Spiega all'Espresso Giovanni Baglio, epidemiologo della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (SIMM): “dal punto di vista della salute mentale, l’effetto migrante sano tende a esaurirsi rapidamente, già prima dell’arrivo, a seguito delle condizioni spesso estreme in cui il percorso migratorio si compie: coloro che arrivano, donne, uomini e bambini, sono estremamente vulnerabili e manifestano forme reattive quali depressione, disturbi di adattamento, disordini post-traumatici da stress, stati d’ansia”. Per “elemosina” intendo quindi l’assumere un atteggiamento puerile, ma al contempo manipolatorio perché fa breccia sull’ incutere senso di pietà e commiserazione, tipico di chi passivamente decide di non voler impegnarsi per cambiare in meglio la propria vita, perché furbescamente ha trovato l’espediente per aspettarsi che venga migliorata esclusivamente dagli altri, accontentati magari per aver ricevuto cure, un alloggio, un dormitorio, e dei pasti in maniera assolutamente gratuita, andando quindi in accordo con chi fa l’accumulatore seriale di buone azioni, quindi il “volontario”, per i propri fini egoistici, ma il tutto però a spese dello Stato. Non si può rinunciare ai propri diritti perché messi a tacere da queste concessioni che restano di primaria importanza, ma che non sono le uniche, perché non potranno mai sostituire una vera e propria integrazione che si struttura a più livelli coinvolgendoli nelle nostre vite sociali. Non ci si può integrare da soli, ci si integra insieme gli uni con gli altri.Una privazione di questi termini essenziali porta alla ghettizzazione di queste persone, che diventano come dei galli in un pollaio, e alla loro auto-ghettizzazione per effetto, derivata anche dalla difficoltà nell’apprendere la lingua e nella conoscenza dei nostri usi e costumi, della città, e per i limiti economici che purtroppo non permettono loro di potersi districare agevolmente nel reticolato urbano. Questa è una situazione purtroppo di chiaro svantaggio che non si può di certo negare, ma risolvere con delle soluzioni pensate proprio da chi decide di volerli realmente aiutare sia a parole, sia con fatti concreti, ripensando l’aiuto volontaristico con strumenti e capacità adeguate, con formazioni efficaci nel settore delle richieste di aiuto, pena il rischio per la sicurezza dello Stato, perché queste sono le principali cause di dispersione scolastica, di azioni delinquenziali e il nascere di nuove strutture criminali addensate nei quartieri più disagiati. Difatti a rischio sono in particolar modo i bambini che vivono nei quartieri difficili, che vanno integrati e ai quali va offerto uno stile educativo che li preservi da traumi e dalla disintegrazione che li circonda. Essenziale è interpretare questo come una chiara lotta alla mafia, ed è per questo necessario instaurare legami amichevoli con le famiglie di questi bambini. I bambini di seconda generazione sono il tramite di due mondi e sono fondamentali per integrare i genitori, in quanto rappresentano dei veri e propri mediatori culturali, però il problema è che al contempo possono vivere nella spersonalizzazione, credendosi stranieri e quindi non sentendosi italiani e però non sentirsi abbastanza radicati alle loro culture perché appunto ormai vivono in questo paese. Il che tradotto vuol dire che dimenticano le loro radici, e spesso non sanno nemmeno come mai sbarchino in Italia tanti loro connazionali e si sentano di un altro pianeta a loro confronto, non conoscendo le motivazioni alla base dei fenomeni migratori. La “logica dell’elemosina” è dunque la metafora adatta a definire questo processo mentale in Italia. E’ la logica degli occidentali colonialisti, dei conquistadores, predatori che ancora credono d’essere al centro del mondo e che presuppongono che gli altri siano oggetti sui quali apporre qualsiasi tipo di termine, d’idea, di etichetta, vedendo gli altri ancora come degli indigeni. Anzi dei barbari. Forse che ancora dopo 1500 anni subiamo le influenze della mentalità dell’Impero romano? Credo di sì. Z. Baumann in “Retrotopia” descrive questa forma di utopia rivolta non al futuro, bensì al passato, sostenendo che oggi viviamo in un’epoca nella quale la fiducia verso il futuro, la linfa vitale, sia stata sostituita con una nostalgia indefinita e generica verso il passato, per la quale si enfatizza una presunta età dell’oro, verso la quale rivolgersi sempre malinconicamente. Ci siamo mai chiesti se lede all’identità di queste persone il definirle in questo modo? Se distrugge la loro autostima ed il loro amor proprio? Se aumenta a dismisura il nostro ego a discapito delle persone che devono sopportarsi il nostro bisogno di volerle aiutare per sentirci migliori? E poi riflettendoci: migliori di chi? Se noi fossimo al posto delle persone che definiamo così, ci piacerebbe essere definiti in tal modo e per giunta di essere aiutati per queste categorie mentali, ossia non in quanto esseri umani, ma perché “poveri e bisognosi”? Dell’essere aiutati non come un fratello/sorella aiuta l’altra/o sorella/fratello, ma come dei miserabili morti di fame, degli straccioni. Non si è poi così “diversi” dai fascisti, dopotutto! Jiddu Krishnamurti affermava lucidamente che nel momento in cui insegniamo ad un bambino la parola “cane”, il bambino non vedrà più il cane. Per definire il concetto di qualcuno, al contempo si definisce anche ciò che non è. Un “migrante”, ad esempio, non è “ricco”, perché il concetto di “migrante” sottintende il concetto di “povertà”, che a sua volta stabilisce come fondamentale l’idea che la povertà sia solo di tipo economico, che non esistano altre forme di povertà (ad esempio quella spirituale, l’essere poveri in spirito, che non ha una connotazione affatto negativa, anzi), e che quindi la ricchezza economica sia di primaria importanza per vivere, perché ha implicitamente escluso il pluralismo di accezioni al termine “povertà”, oltre al fatto di legare l’importanza della persona alla quantità di denaro che possiede. Escludiamo le parole che escludono, escludiamo le escludenze, escludiamo tutto ciò che esclude e che definisce. Si ragiona quindi troppo spesso secondo il “pilota automatico”, secondo atteggiamenti e schemi di pensiero primitivi recepiti orwellianamente per assorbimento, come delle spugne, non come persone che esercitano le proprie abilità evolute per imparare a pensare in maniera autoptica ed originale. Quindi il problema risiede nell’includere inconsciamente all’idea primaria tutti i correlati derivanti dalle generalizzazioni del pensiero comune. Quando invece una persona che proviene dall’estero può possedere terreni, case, può aver studiato all’università ed essere pure laureato in biochimica. Può avere una laurea in ingegneria, conoscere 6 lingue ed insegnare francese ed inglese. Se si vuol davvero porre la ricchezza economica al primo posto, un’analisi attenta dei fenomeni migratori impone queste considerazioni attente. Altrimenti si penserà facilmente che i “nuovi arrivati” in Italia siano poveri solo perché a noi può far piacere pensare di essere a loro superiori. Che sia questo il reale motivo per cui vengono utilizzate queste definizioni? Quindi le parole hanno delle intradipendenze e delle interdipendenze fra loro, dunque il conoscere queste interconnessioni e intraconnessioni linguistiche, le sfumature di senso, le allusioni, i sillogismi, i paradossi, gli autoinganni che ne derivano, è sinonimo di empatia e di competenza relazionale con gli altri e con se stessi in egual misura. Parlare di se stessi e degli altri in maniera positiva è quindi il primo segnale di accoglienza, d’inclusione e della nostra integrazione biunivoca. Anche chi proviene dall’estero, che si trasferisce qui, entra quindi di conseguenza in questo circolo vizioso di razzisti consapevoli e promotori del loro odio verso chiunque venga riconosciuto come nemico e capro espiatorio, e razzisti che infestano il “Mondo del Volontariato”, un mondo che sicuramente presenta realtà composite, molte delle quali indubbiamente svolgono un ottimo lavoro integrativo, in maniera egregia e concreta, ma anche molte delle quali non lo svolgono affatto, sulle quali è bene analizzare criticamente e con serietà, perché arrecano danni a tutto il sistema integrativo nazionale e perché hanno un peso politico di rilievo e un’influenza sociale di primo piano nel determinare il sistema di credenze su tal tema. “La migrazione è un fenomeno che ha riguardato la ‘modernità’ dalle sue origini ed è da essa imprescindibile. Perché la modernità produce ‘persone inutili’ ”. (Z. Baumann) Quindi tornando a queste persone, soggette a doversi spostare dalle loro terre natìe, per venire qui, sono soggette a grandi cambiamenti e per assorbimento anche loro subiscono la manipolazione: vi è un lavaggio del cervello a tutti gli effetti. Se costoro non sono in grado di proteggersi da questo sistema psicologico di stampo manipolatorio, che avviene quindi sia nelle strutture di prima accoglienza, sia nelle strutture d’integrazione, sia sul piano nazionale tramite l’opinione pubblica manipolata, rischiano costantemente di assumere anche loro questa mentalità, divenendo così assistenzialisti, senza identità, senza orgoglio, senza dignità, ed al posto di vedersi come gli altri, iniziano a vedersi con gli occhi di chi li osserva e applicano il pattern del razzismo su loro stessi, divenendo non più esseri umani, ma “poveri”, “migranti”, “neri”, “gialli”, “viola” ecc. pensando di non essere capaci di provvedere a loro stessi, perché aspettano che cada loro la manna dal cielo, portando quindi inconsciamente chiunque interloquisca con loro a pensare che loro siano in tal modo. I giudizi, il nostro modo di identificarci che abbiamo verso noi stessi sono il nostro biglietto da visita, sono la nostra carta d’identità e la nostra presentazione.​​

Ben sappiamo e ben dovremmo sapere che le anime di queste persone possano essere più vulnerabili per via delle loro atroci sofferenze per l’aver dovuto cambiare letteralmente vita, Paese, lasciando famiglie e amici ed aver subito ogni sorta di abuso e di maltrattamenti nei loro paesi di origine e/o in Libia. Invece se si parlasse con loro alla pari, offrendo immediatamente i mezzi per provvedere a loro stessi in maniera autonoma, si avrebbe una società equa. Forse vogliamo ancora trattare le persone in questo modo perché se cadesse la logica dell’aiuto assistenzialista perderemmo la nostra identità ed anche qualcuno perderebbe il lavoro che ha ottenuto grazie alle multinazionali che influenzano la politica in primis, che a sua volta specula sul mantenimento e sulla paralisi sociale mantenendo in vita strutture dissestate con persone assolutamente incapaci nel loro lavoro? Lo stesso problema che da anni si ripete sul fatto che in Africa ad esempio siano ricchi di risorse ma che non abbiano come utilizzarle in maniera arricchente, perché contrastati dalle multinazionali straniere colonialiste, è ciò che facciamo qui in Italia, il processo è lo stesso. Attuiamo una politica assistenzialista come in Africa per mantenere l’ordine di interessi di chi detiene il potere e per permettere ai paesi europei di continuare a sfruttare il continente africano. E’ da abolire pertanto la logica dell’aiuto di questo tipo, perché non è davvero aiuto, perché fra l’altro preclude l’amicizia, la fratellanza spirituale che aprono le porte della nostra evoluzione culturale e spirituale. “Lo Stato non dedica più le sue attenzioni alla povertà con lo scopo primario e fondamentale di tenere in buone condizioni i poveri, ma con quello di sorvegliarli e di evitare che facciano danni o che creino problemi, controllandoli, osservandoli e disciplinandoli.” (Z. Baumann) E’ necessario uno stile di vita rivolto al bene, che passa dall’impegno nel sociale, al senso civico e all’educazione alla politica, alla spesa etica ed alla parsimonia economica nei supermarket per non sovvenzionare le multinazionali, non quindi azioni singole che hanno l’effetto di aiutare nell’immediato soltanto chi si ha davanti, non cambiando la propria ottica e continuando a finanziare gruppi economici, lobby, multinazionali e partititi politici che causano questa situazione. Lo sforzo teoretico quindi implica un totale ed assoluto processo creativo volto alla creazione di nuove parole, e di una ricerca collettiva di parole che siano caricate in maniera assolutamente neutrale. Questo è sicuramente un obiettivo che richiede tempo, studio, analisi terminologiche, sociologiche, psicologiche, ma garantisce che siano preservati i diritti e il senso di equità di ogni persona che risieda qui in Italia da sempre, sia che sia appena arrivata. L’integrazione difatti non implica l’ottenimento dei documenti, imparare la lingua e la cultura, lavorare, sposarsi e ottenere la possibilità di non farsi rimpatriare. E’ molto di più perché riguarda sia chi arriva da fuori, sia chi risiede qui, perché non è il popolo che arriva a doversi integrare, quindi implicitamente ricevendo l’invito di dover perdere la propria identità culturale, per scimmiottare gli italiani, così da essere sottomessi a svolgere qualsiasi mansione degradante, ma implica che avvenga da parte di entrambi questa integrazione, italiani inclusi quindi. L’errore sta nel non parlar mai dell’integrazione degli italiani con le culture che arrivano e questo è il segnale di un’Italia che rifiuta il cambiamento e il confronto, per restare schiava delle proprie credenze, secondo la sua mentalità ottocentesca da imperialista occidentale. O forse bisogna mantenere questo status quo per avere sempre dei lavavetri, delle cameriere, dei baby sitter, dei lavapiatti, dei lavoratori in nero e sottopagati come impongono le multinazionali che impoveriscono i loro territori per costringerli ad emigrare qui da noi perché gli italiani si stanno rifiutando di svolgere determinati lavori e perché vi è una carenza di manodopera a basso costo? E’ una deportazione, ma il suo senso è molto velato da cogliere. Le analisi rilevano appunto la scarsa “concorrenzialità” tra lavoro straniero e lavoro autoctono a parità di competenze. Secondo il Ministero del Lavoro solo l’1,3 per cento dei lavoratori italiani con laurea svolge un lavoro manuale non qualificato, mentre questa percentuale si alza all’8,4% nei lavoratori extra-comunitari. Inoltre, secondo l’Inps ogni anno gli “immigrati” versano 8 miliardi di euro di contributi e ne ricevono 3 in pensioni e altre prestazioni, con un saldo netto di circa 5 miliardi (fonte: Redattore Sociale).

Cosa vogliamo quindi? Consideriamola come una nuova tratta degli schiavi, come al tempo delle deportazioni in America, ma con l’attuale comodità che questi sventurati, scappati da guerre, dal terrorismo, da carestie ed epidemie, sopravvissuti al deserto, ai fondamentalisti, ai lager libici, al Mediterraneo, ora arrivino direttamente a casa nostra, di loro spontanea volontà. Ipocrisie europeiste. Questi fenomeni migratori sono tutto questo. Ora, visto che si tratta di stabilire una pacifica o conflittuale convivenza, occorrerebbe focalizzarci sulla logica della pace, riflettendo tutti sulle grandi possibilità evolutive tramite il dialogo, l’ascolto, la riflessione collettiva, lo scambio culturale, le differenti visioni sull’esistenza.​​ “Saper ascoltare è una grande arte ed una grande disciplina: sadhana. Perché io non so ascoltare se sono troppo pieno di me; non so ascoltare se già conosco la risposta; non so ascoltare se non faccio silenzio in me; non so ascoltare se non ho rispetto (“eh sì, quest’uomo che non sa niente, che mi dovrà mai dire”?); e non so nemmeno ascoltare se già faccio la violenza di situare ciò di ciò di cui quella persona vuol parlare in uno schema predeterminato da me. Il silenzio è lo svuotamento: saper ascoltare è la grande saggezza oggi, e s’impara molto quando si sa ascoltare. E’ veramente straordinario: ogni cosa allora è una rivelazione! Ogni cosa. (R. Panikkar) Puntualizzazione sulla differenza tra linguaggio logico e linguaggio analogico: "il linguaggio logico è descrittivo ed è usato per dare spiegazioni. Il linguaggio analogico, invece, procede per immagini ed è capace di attivare qualcosa che è al di sotto della coscienza. Ogni domanda dovrebbe essere posta con entrambi i linguaggi per attivare nell’interlocutore un dialogo con se stesso che sia emotivo, oltre che razionale." (Giorgio Nardone) Prima accetteremo di voler perdere il nostro senso di nazionalismo, del sentirci “italiani” ideologici da cori da stadio -questa grande credenza sistemica che si basa sull’aver etichettato un territorio e di averne segnato i confini identitari- prima potremo evolverci in una nuova identità nata da questo mix, come è avvenuto con le popolazioni che nell’arco di tutti questi millenni hanno camminato sul “nostro” suolo verso i quali rendiamo grazie per averci trasmesso la loro conoscenza artistica, architettonica, matematica, linguistica, musicale, religiosa. E chi proviene da altri Paesi, invece di continuare a pensarsi come asiatico, africano, bengalese, siriano, che abbia l’invito da parte nostra a pensarsi di doppia nazionalità, finalmente. Vi è un profondo senso di ospitalità e di accoglienza da riscoprire in tutto questo. Un sierra leonese che abbia modo di essere italiano, un sierraleonese-italiano. Colui che proviene dall’estero avrà finalmente modo di non sentirsi chiamato con il marchio a fuoco di “migrante”, ma come ad esempio afro-italiano, prendendo esempio dalla cultura afro-americana. E il suggerimento che faccio a tutti i miei fratelli e alle mie sorelle è quello di utilizzare questa parola per parlare di sé, piuttosto che in altro modo: ne vale sia della protezione della propria identità culturale, sia della propria autostima, sia dell'amor proprio, ed anche della propria privacy contro le inopportune domande indagatrici di una sempre eccessiva curiosità estremamente diffusa sulle loro esistenze. E’ sicuramente complesso trattare questi argomenti insieme alla libertà ed al senso di sicurezza che sono anch’essi basilari, ma di certo manifestare una voglia di creare dibattiti su questi argomenti è necessario, per evitare che un giorno non troppo lontano, quando queste persone prenderanno consapevolezza di questi problemi, possano insorgere violentemente proprio come avvenne in America: il dialogo è la cura preventiva verso gli scontri razziali futuribili. Specifico che parlare, dibattere e dialogare siano dei termini dalle diverse accezioni, in quanto chiunque può parlare, ma soltanto le persone realmente disposte ad ascoltare e ad annullare qualsiasi giudizio sul “vero”, sul “falso”, sul “giusto” e sullo “sbagliato”, sul “bene” e sul “male” possono davvero dialogare alla pari fra loro, senza volersi prevaricare o giudicarsi di alcun modo. Il dialogo è il presupposto per il vivere insieme a livello comunitario, quindi il semplice parlare e far finta di ascoltarsi per rispondersi ed affermare le proprie tesi non è efficace: occorre una comunicazione profonda. Teniamo sempre presente che prima o poi queste persone non si accontenteranno di solo pane e acqua e di essere tenuti come galli nel pollaio, richiederanno sempre più i loro diritti e se non vi sarà un terreno integrativo, ma repressivo come oggi, dalla loro schiavitù per nostra convenienza economica, parassitaria, e nostro eccesso senso di sicurezza deriverà il caos. Invece, la sicurezza e la libertà equamente bilanciate offriranno i termini per l’evoluzione di questo Paese. E’ una sfida che possiamo vincere insieme. In chiusura: aiutare vuol dire rendere il prima possibile le persone libere ed autonome dal nostro aiuto solidale, perché se perpetuato è un aiuto malato, sia per chi dona aiuto sia per chi lo riceve. Qualsiasi cultura venga a trovarci è da interpretare come un dono, ed anche un farmaco che può risanare la nostra società avvelenata d’individualismi, discriminazioni, razzismo, perbenismo e conformismi. Integrazione è corrispondenza biunivoca di culture, sinonimo di evoluzione per entrambe, simbolo di un’umanità vitale e benedicente. Natale Anastasi


 
 
 

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